Il mito di Re Mida by Luigi Carrer

Il mito di Re Mida by Luigi Carrer

autore:Luigi Carrer [Carrer, Luigi]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


Nicola Bizzi

Firenze, 26 Aprile 2024.

Luigi Carrer

Illustrazione di Walter Crane per una versione alternativa, scritta da Nathaniel Hawthorne, del mito del Re frigio: Mida trasforma sua figlia in oro (edizione del 1893).

IL MITO DI RE MIDA

La favola dell’avaro monarca di Frigia, chi volesse ridurla a prettissima storia, è la seguente. Fu in una città di questo mondo, un uomo, vir quidam, al quale essendo passata buona parte della giovinezza tra le illusioni di un’anima ingenua e confidente, saltò in capo di rifare la propria natura, e spassionarsi di quelle allettatrici apparenze che gli aveano cagionate tante perplessità e tanti affanni. Compreso il cervello da questo disegno, s’imbatté in un filosofo, che se ne andava pettoruto per via, come appunto il Sileno della favola, scontrato da Re Mida nel bosco a ridosso il giumento. E come il buon vecchio dalla modesta cavalcatura rimeritò le cortesie usategli da Re Mida, con accordargli l’adempimento della pazza domanda che questi gli aveva fatta, che tornassegli oro tutto quello a che poneva le mani; parimente il filosofo accondiscese alla domanda di quel nostro tal uomo, non meno pazza dell’altra, dandogli modo a torsi dal capo tutte le illusioni, e a vedere le cose di questo mondo nelle loro naturali sembianze.

Non so se vi ricordiate a qual misera condizione si trovasse condotto Re Mida quando ogni cosa toccata, in oro se gli convertiva, e sì i cibi, sì le bevande, sì tutto che avesse voluto prendere, per assaporare, per odorare, per farne che che si fosse, tutto era oro; oro che non si poteva mangiare, né bere, né odorare, ma solamente guardare, e poi tornar a guardare, e sentirselo ognora pesante tra mano. Fate conto che a quel nostro tal uomo accadde appunto lo stesso. Egli trovava la verità di ogni cosa, ma verità insipida, pesante, uniforme, che non poteva essere, permettetemi usare la metafora, né mangiata, né bevuta, né odorata, né altro, ma solo mirata, e tornata a mirare, fino a rimanerne sazio e ristucco.

Oh! Come può essere, mi direte; la verità è fra le cose la più bella, e della sola vista, così almeno scrisse Platone, può far l’uomo contento. — Io venero grandemente Platone e la sua dottrina; ma in onta a tutta la mia venerazione per quel sapiente, mi conviene raccontare la mia storia. Il nostro uomo arricchito dal filosofo, per singolarissima grazia, della sapienza, vedeva adunque tutte le cose nell’aspetto loro più genuino. Per godere di questa sua nuova virtù ritornava dall’alba al tramonto col pensiero e cogli occhi a tutti gli oggetti dei quali aveva alimentato il suo giovanile delirio, quando gli apparivano fasciati dal manto prestigioso che una bollente fantasia e un cuore più ancora bollente vi avevano sopra gettato. Levava gli occhi al cielo, ma non ci vedeva più l’astro consapevole di ogni nostro dolore, e vago di riflettersi più che altrove sulle rovine a circondarle quasi dirò di un’aureola che le faccia più venerabili e care, o di battere sulla fronte della bellezza a renderne più espressivo e



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